“Così mi restano poche ore, e non avrò il tempo di salutare neanche uno dei miei amici sparsi nelle molte città dei dintorni (…) Invece, già con una punta della futura nostalgia, devo accontentarmi di quello che ho sottomano (…) Sullo sfondo, vedo il mare infrangersi sulla spiaggia di antracite.”

Come si può guardare in faccia l’orrore senza rifuggirne?

Come può uno straniero in terra straniera decifrare la bruttezza di un popolo e svelare sotto le macerie del tempo e delle bombe una sua bellezza atavica, solida, capace invece di resistere alle tenebre, agli stupri,  alla disperazione?

Come si fa ad amare e a vivere e a sperare nonostante i corpi mutilati, la miseria, gli inganni, l’indifferenza, quando tutto, persino la natura sembra urlare la propria vergogna?

Come si riesce ad afferrare l’altro così diverso, nel cuore e nelle linee del viso, nei sogni e nelle paure, a stringerlo a sé fino ad imprimere il suo odore nel proprio, a vederlo davvero come mai si era visto qualcuno?

Come si può raccontare la guerra senza appiccicare sulle divise dei soldati uccisi o portati in trionfo il colore dei vinti e dei vincitori, senza poggiare le proprie mani su quella bilancia difettosa che è la storia in cui colpe e assoluzioni non si danno mai in egual misura?

Forse non si può. Forse è impossibile avere occhi e cuore così grandi da contenere tutto il bene e tutto il male, e farlo restare lì negli anni fino alla fine. Forse.

Quando Norman Lewis entra con la Quinta Armata Americana a Napoli è il 1943. Lui è solo un ragazzo, un giovane ufficiale inglese mandato al macello come tanti prima e dopo di lui.  Davanti c’è una città irriconoscibile, distrutta, dilaniata, eppure misteriosamente vitale, infuocata da riti e credenze di ogni sorta, le teste di pescespada mozzate a guardare il cielo, il sangue dei santi, i cornini di corallo, i numeri che conducono alla morte e l’oroscopo rivelatore. Questa città che ha perso i suoi figli migliori ed è rimasta con un nugolo di donne, storpi, vecchi e bambini affamati, continua a resistere. Ricomincia ogni volta da dove si era interrotta ed è un inizio inventato dal nulla. Napoli è viva, nonostante il lezzo dei cadaveri impregni l’aria e i pensieri.

Lewis annota tutto quello che vede e gli succede intorno, per un anno scrive pagine e pagine. Le donne, il sesso in piedi contro una parete per una scatoletta di carne, i corpi mutilati, le sevizie ad innocenti creduti spie, il prete e i candelabri rubati venduti nei vicoli bui, gli aristocratici caduti in disgrazia, i gatti finiti sui piatti dei pochi ristoranti rimasti aperti, la gente di Camorra che “in questa terra non cresciamo partigiani”, i soldati innamorati, gli sciuscià, lo zio di Roma, San Gennaro, il Vulcano e i politicanti improvvisati.

 

Quegli appunti, riscritti a macchina anni dopo, insieme alla moglie, divennero Naples ’44. Un libro incredibile, un memoriale che The Saturday Review ha definito non a caso come “uno dei dieci libri da salvare sulla seconda guerra mondiale”, un lucido e puntuale trattato antropologico, ma più di ogni altra cosa, una straordinaria e commovente dichiarazione d’amore ad un paese che si era mostrato, coi suoi vizi e peccati, nella sua sconcertante e seducente nudità allo sguardo, ancora vergine, di un forestiero di cui a malapena riusciva a pronunciare il nome.

Ora su quel libro Francesco Patierno, regista napoletano di sensibilità rara, ha scritto un film documentario struggente, ironico, bellissimo in cui Norman Lewis, ormai anziano e affermato scrittore, ritorna su quelle strade e vicoli e piazze in cui per un anno ha vissuto così intensamente. La sua voce è quella profonda di Benedict Cumberbatch, è lui ad accompagnarci tra le pagine del libro, diventate immagini in bianco e nero, preziosi documenti d’archivio, spezzoni di film indimenticabili.

Napoli '44, Benedict Cumberbatch
Napoli ’44, Benedict Cumberbatch

Presi per mano, strattonati, obbligati a seguirlo dove non vorremmo, Norman non ci lascia mai, neanche per un secondo, anche quando ci viene narrato l’indicibile, i bambini che muoiono come ad Aleppo o su barconi bare nel Mediterraneo, l’indifferenza di fronte al dolore innocente di un gruppo di orfane cieche, lui è lì, terribilmente presente:

Sulla soglia sono improvvisamente comparse cinque o sei ragazzine fra i nove e i dodici anni (…) avevano sotto gli occhi una tragedia e una disperazione che non si potevano ignorare (…) Questa esperienza ha cambiato il mio modo di vedere le cose. Fino a oggi mi ero aggrappato alla rassicurante convinzione che, in definitiva, gli esseri umani arrivano ad accettare il dolore e la sofferenza. Adesso, ho capito che mi sbagliavo e, come San Paolo, mi sono convertito, ma al pessimismo. Quelle bambine, ognuna delle quali avrebbe potuto essere mia figlia, sono entrate nel ristorante piangendo, e piangevano quando le hanno portate via. So che, condannate a un buio senza fine, alla fame e alla solitudine, piangeranno per sempre. Non guariranno mai dal dolore, dal cui ricordo, del resto, neanch’io potrò mai guarire

Da più parti è stato scritto che Naples ’44  è una potente denuncia contro tutte le guerre, a me piace pensare che Norman Lewis avrebbe preferito usare le parole di Vittorio Arrigoni e definire  il suo libro un appassionato appello a restare umani, soprattutto e nonostante le guerre.

 

N. Lewis, Napoli ’44, Adelphi, Milano 1978

F. Patierno, Naples ’44, Dazzle Communication, Rai Cinema, 2016