Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare

Samuel Bellamy, pirata

(citazione nelle note di copertina di Le nuvole di Fabrizio De André)

Sono poco più di una bambina, sono alta per la mia età (a guardarmi ora non si direbbe, ma allora lo ero davvero), da qualche giorno abbiamo uno stereo nuovo. Ci sono cassette e dischi ovunque, c’è quello di Venditti, perché mamma il sabato, quando pulisce casa, vuole sentire Ricordati di me e allora dobbiamo sorbirci tutto l’album prima che arrivi a quella canzone. Ci sono cassette colorate di blu, arancione, rosso, è musica New age, ultima scoperta di papà. A mamma non piace, perché è una musica da ascoltare e lei non può farlo, nell’unico giorno in cui non lavora non può meditare sull’universo con l’assolo di sax da 10 minuti e 15 secondi.

Sono appena entrata in salotto, lo stereo fa lunghe pause tra un “ancora Venditti, basta!” e un sonoro “e quella la chiami musica, sembrano i lamenti di un cane”.  Mi è stato proibito di ascoltare Cristina D’Avena, l’ultima volta la cassetta di Kiss me Licia fu gettata dalla nostra auto in corsa sulla Salerno – Reggio Calabria (una lunga storia). Mi annoio, mi guardo intorno, c’è una cassetta mai vista prima, è registrata, papà ci ha scritto sopra con il pennarello blu Le nuvole – Fabrizio De André. Me lo ricordo De André è quello de Il pescatore, so le parole di quella canzone, perché l’ascoltiamo sempre in macchina, nelle giornate di sole papà alza l’autoradio e fa dondolare la mano fuori dal finestrino.

Play. Due voci femminili, profondissime, a raccontare quella che sembra una favola. Ne resto incantata.

Fabrizio De André è e resterà per sempre quello spazio e quel tempo lì, una bambina, un sabato di 28 anni fa, un ricordo vivido, aggrappato alle voci ipnotiche di Lalla Pisano e Maria Mereu.  Anche crescendo, diventando altro ai miei occhi, un Gesù Cristo personale che chiama per nome quello che senti e vedi, quello che non capisci e che non ti piace, anche nei testi più dolorosi e arrabbiati, il mio Fabrizio sono quelle voci di donna. Sono l’incanto, la malinconia, lo stupore.

Quando scopro che ci faranno una fiction Rai, io che per la Rai e la parola fiction, lo devo confessare, ho una fortissima idiosincrasia, ho un sussulto. Mi fa male la bocca dello stomaco. L’avverto proprio la sensazione di disagio. Me le ricordo le mini serie Rai, su Tenco, su Rino Gaetano, personaggi enormi ridotti a macchiette, un album di figurine da attaccare e staccare tra una pubblicità e un’altra. I biopic, ho sempre pensato, sono il male del mondo, anche gli americani, mostruosi storyteller scivolano sotto il peso di vite inenarrabili (ho ancora l’orticaria per The Aviator). Però, e sì c’è un però (ce ne sarebbero due ad essere precisi), questa fiction, leggo, l’hanno scritta Francesca Serafini e Giordano Meacci, scrittori raffinati e sceneggiatori dell’ultimo inchino al mondo di Claudio Caligari, Non essere cattivo. Un però bello grande, insomma, non c’è che dire. A interpretare De André, Luca Marinelli, il secondo però, anche questo assai considerevole nelle definizione del giudizio finale. Per cui decido in quell’istante che vedrò una fiction Rai.

Fabrizio De André – Principe libero, di cui ho scritto molto seriamente su Quaderni d’Altri Tempi con un’intervista ai due autori (li abbraccerei forte per avermi regalato le loro parole!), è sì una fiction Rai e, tuttavia, possiede un’altra profondità, un’altra andatura, un ritmo tutto suo; è una dedica all’uomo, all’artista, senza pretese di verità o fedeltà. C’è molto amore in questa serie e non poteva essere altrimenti parlando di Faber.

Quando ho chiesto a Francesca e Giordano di raccontarmi il loro primo ricordo di De André, le loro nuvole insomma, ho compreso ancora di più l’intenzione dietro Principe libero.

«La cosa paradossale è che, a pensarci adesso, le immagini che ci vengono in mente sono sempre le stesse e però mutevoli nel tempo. Ci spieghiamo: il ricordo di Francesca che ascolta La buona novella isolandosi dal resto della famiglia e a porte chiuse si fonde con la memoria di Giordano (quando usiamo il noi diffratto è sempre bizzarro scindere i due nomi) che sogna la donna della sua vita tra le note bellissime e però tristissime della Canzone dell’amore perduto. Ricordiamo in sostanza, dopo tanti anni di parole, un Fabrizio De André nostro e comune che, comunque, riusciamo a rileggere e a condividere con gli affetti più cari ogni volta che parte la musica di una qualsiasi delle su canzoni.»

C’è un momento nel film in cui Marinelli – De André recita a Valentina Bellè – Dori Ghezzi,  il testo de Le nuvole.  Sono poco più di una bambina, sono alta per la mia età (a guardarmi ora non si direbbe, ma allora lo ero davvero), da qualche giorno abbiamo uno stereo nuovo. Mi annoio, mi guardo intorno, c’è una cassetta mai vista prima, è registrata, papà ci ha scritto sopra con il pennarello blu Le nuvole – Fabrizio De André. Eccolo il mio Fabrizio. Mi sorride, io, invece, mi commuovo perché in quei versi c’è un mondo, c’è la mia casa, la mia famiglia, ci sono io.

Sui titoli di coda ho pensato “chissà che direbbe Faber di questo film”, Francesca e Giordano, a cui ho girato la domanda, mi hanno risposto nell’unico modo in cui era possibile rispondere, con l’ironia dissacrante e unica del loro/nostro principe libero.

«Come fai a far commuovere con una biografia?» (con un sottinteso: «per la mussa ci vuole altro. La magia la fai coi versi»).

 

luca marinelli immaginato a colori da alessandro ribaldo