C’è un’America sconosciuta, immobile, stropicciata dagli inverni gelidi e dalla noia.

È l’America della Bibbia e delle torte di mele, dei gusci di arachidi sputati per terra, dei neon singhiozzanti, dei baristi di nome Bob con la camicia a quadri, il panno su una spalla, lo stecchino tra i denti, mentre fuori il cielo pare immobile. Nonostante i tornado e le campagne elettorali, i predicatori con gli occhi al cielo e una mano al portafoglio, niente laggiù cambia mai davvero. È un’America brutta e sporca, dimenticata dai giornali e dalle tv, fatta a pezzi dalla crisi, le fabbriche dismesse, frantumate, come le esistenze dei suoi operai, le insegne scolorite dal tempo che passa, la polvere, il silenzio. È l’America dei vaccari e degli agricoltori, delle distese di mais e di grano; lì nella “Cornbelt”, dove nei primi anni Ottanta a causa della recessione i contadini sparavano ai direttori di banca, non si scattano foto ricordo. Non è fotogenica questa America, non lo è la miseria, come scriveva lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun.

Nessun posto è bello come casa mia

Il Midwest rurale e puritano, lo stesso in cui Dorothy alla fine sceglieva di tornare dopo strabilianti avventure nel meraviglioso mondo di Oz, sbattendo i tacchi delle sue scarpette tre volte, l’uno contro l’altro, ha il volto rugoso e stanco, l’aspetto trasandato. “Nessun posto è bello come casa mia”, diceva Dorothy, ma è una favola che nessuno vuole più ascoltare. Le parole si perdono sulle strisce infinite di asfalto, le strade che portano ovunque e in nessun luogo inghiottono le ombre e cancellano i sogni. Aldilà delle montagne ci deve essere un posto “dove non cacciarmi nei guai (…) deve esistere (…) Dev’essere molto, molto lontano, oltre la luna, oltre le nuvole”, diceva al piccolo Totò. Quel posto lontanissimo è l’America morbida e sinuosa delle riviste di moda, immersa nel rumore assordante delle jazz band tra centrifughe biologiche e locali radical chic, dove le star indossano occhiali scuri e smoking e dove la gente parla di politica estera mangiando sushi. Oltre la luna, oltre le nuvole, però, abbiamo già visto tutto.

L’America malinconica di Alexander Payne

Alexander Payne, regista e sceneggiatore raffinato, autore, tra gli altri, dei bellissimi A proposito di SchmidtSideways e Paradiso Amaro, sceglie di raccontare quello che, invece, non vediamo se non in qualche documentario di nicchia o in alcune pellicole dell’epoca reaganiana, quando il Paese si riempiva di morti impiccati e di “ghost towns”, le città fantasma, terribile spettro della crisi e di una fugace quanto illusoria prosperità. Ci racconta un’America malinconica, meno attraente di quella a cui migliaia di prodotti culturali ci hanno abituato, politicamente scorretta e dissacrante come la Springfield dei Simpson, ma straordinariamente reale. Nebraska, come il titolo di un album di Bruce Springsteen del 1982, è una fotografia in bianco e nero, graffiata sapientemente da uno humor cattivo e irresistibile, di un viaggio, fisico, emotivo, ma soprattutto generazionale, di un padre e di un figlio. E proprio come la cover del disco, è la strada desolata, una route statunitense simile a tutte le altre, a condurre i protagonisti altrove, lontano o verso il nulla, per parafrasare i versi di un brano del Boss, in un viaggio vogleriano on the road, atto rivoluzionario e insieme di profonda fede, nel quale alla fine gli eroi non vogliono fare ritorno a casa. Da Omaha al Colorado, da San Diego alle strade di Santa Barbara, fino alle Hawaii, Payne nella sua filmografia ci mostra le molteplici pieghe dell’animo umano, quelle di un vedovo in pensione, di un enofilo aspirante scrittore o di un marito tradito, tutti quei tic, quelle angosce, quei ricordi, sogni, segreti che ci tormentano e non ci abbandonano, esattamente come quel nowhere da cui ci ostiniamo a scappare e a cui non possiamo sfuggire.

Usa il tono leggero della commedia, l’irriverenza delle battute e degli sketch alla Saturday Night Live, per far vibrare i corpi e le facce, facendone delle maschere grottesche, moralmente reprensibili, per narrare il fallimento e l’ineluttabilità e, nello stesso tempo, per liberarci tutti. Le sue storie non sono che percorsi catartici, mostrano la vita in campo lungo, lasciando alla tragedia i primi piani, come avrebbe detto Charlie Chaplin. Nebraska è una meta, quella di Woody Grant, sullo schermo il volto crucciato e il corpo tremante di Bruce Dern, vecchio burbero e alcolista, ostinato ad incassare il suo milione di dollari vinto ad una presunta lotteria per posta, “Voglio comprarci un pick up e un compressore”.

Se voleva essere milionario avrebbe dovuto lavorare per diventarlo

Da Billings nel Montana fino alla città di Lincoln, 800 miglia per rincorrere il miraggio di un riscatto, anche a piedi se necessario. Una follia per la petulante e sboccata moglie Kate, l’esilarante June Squibb, “se voleva essere milionario avrebbe dovuto pensarci prima e lavorare per diventarlo” e per il figlio maggiore Ross, anchorman in carriera. C’è l’ospizio per certe forme di demenza senile oppure una tv perennemente accesa sul football. C’è la casa, ci sono le costolette di maiale e un frigo pieno di birra. Inseguire una truffa certa è una follia per tutti, tranne per David, figlio trentenne con un lavoro precario, una relazione fallita e una pianta che non annaffia mai. In fondo “è solo il desiderio di un vecchio, che male c’è?”. In realtà è molto di più.

È quello che sta nel mezzo, tra le teste “buttate via” dei quattro presidenti del Monte Rushmore e i motel, nei bar sempre aperti e sui marciapiedi, tra cimiteri e vecchie farm, nei pranzi di famiglia e rimpatriate improvvisate che i protagonisti iniziano realmente a riscuotere. Quello che trovano, alla fine, non è quello che stavano cercando. Nel mezzo, padre e figlio si fermano nell’immaginaria Hawthorne, cittadina d’origine dell’anziano genitore, istantanea perfetta di un qualsiasi villaggio del midwest americano, identico da decenni: “di fianco, lungo la main street, si allineano i negozi che servono la piccola ed austera comunità: il supermercato, l’emporio di generi vari, la cooperativa delle sementi e degli attrezzi agricoli, il caffè-ristorante, la stazione di servizio”. Lì ad aspettarli un nugolo di parenti e amici serpenti, pronti a riscuotere vecchi debiti, un passato di foto ingiallite e disastri, medaglie al valore militare, lapidi su cui riversare il rancore di una giovinezza perduta, molte storie e troppi bicchieri di whiskey annacquato.

Quelli che perdono alla fine vincono sempre

È lì, nelle maglie delle narrazioni altrui, quella dell’infido socio in affari, reo di avergli sottratto un compressore e molti soldi, dei fratelli inebetiti dagli anni, del vecchio amore mai dimenticato e della stessa moglie, accorsa per riportarlo indietro, che avviene una sorta di agnizione tra due, fino ad allora, perfetti sconosciuti. Woody e David alla fine si scoprono e si riconoscono come padre e figlio. Piccoli entrambi l’uno di fronte all’altro. Si guardano per la prima volta, scoprendo tutte le fragilità e le paure reciproche, il sipario che cade prima di rimettere a posto le cose, il futuro troppo vecchio per diventare presente, le parole che non si sono detti e un’esistenza intera incastrata tra il vialetto di casa e una vecchia poltrona. Si alleano contro il fallimento e le disillusioni cui entrambi sembrano inevitabilmente destinati, come quelle vecchie buste di plastica portate qua e là dal vento, impigliate tra i rami o nelle griglie dei tombini, non più reietti che la vita ha piegato, ma vincitori improvvisati. Quelli che perdono, nelle pellicole di Payne alla fine vincono sempre, un po’ increduli della strada fatta per arrivare fin là. Sbalorditi dai graffi e dal lieto fine. Non c’è nessuna lotteria, nessun milione di dollari, nessuna eredità da lasciare alla famiglia o da sbattere in faccia ai nemici di sempre, “però se vuole può avere un cappello”, gli dice una responsabile della Mega Sweepstakes Marketing. Avrà di più. Più di un cappello promozionale, più di un pick up e di un compressore nuovi.

Guida lento, Woody, il finestrino abbassato, lo sguardo fiero si appiccica sulle facce attonite dei suoi concittadini, come una sberla. Non crede più a quello che la gente gli dice. Passa oltre i loro occhi, oltre le case bianche e linde, con le tende ricamate alle finestre, oltre il caffè e il ristorante con il karaoke, oltre le bandiere americane che sventolano fiere sul nulla. Forse lo ha vinto davvero il suo milione di dollari. David se ne sta accucciato sul sedile perché non lo vedano, sorride di quella messa in scena, perché in fondo quel riscatto è anche il suo. Sembra avere sei anni e un altro abito, ma adesso è lui l’adulto, lui l’unica eredità da lasciare, “un vero uomo è il proprio padre”, scriveva alla fine degli anni Settanta il drammaturgo francese Jean Anouilh. Possono fare ritorno a casa, da uomini, su un furgone nuovo, il compressore nel cassone.

Un viaggio che è anche una piccola scoperta verso l’altro e verso se stessi

Nebraska è un racconto di formazione on the road, in cui la mappa geografica si intreccia e si confonde con quella emotiva, un viaggio nel quale ogni tappa segna una svolta interiore, una piccola scoperta verso l’altro e, naturalmente, verso se stessi. La desolazione del paesaggio e la rigidità degli ambienti interni – il salotto, la cucina, il bar, l’ospedale, la strada – si scontrano, invece, con il dinamismo dei personaggi principali, che si rivelano gradualmente nella loro sorprendente complessità. Il bianco e nero valorizza, smorzandoli, il colore acceso dei caratteri e del linguaggio, le parolacce e le imprecazioni, l’aspetto sciatto dei protagonisti, l’assenza volontaria, quasi ricercata, di ogni forma di bellezza. Non è l’estetica del brutto che si vuole mostrare, piuttosto quella appannata e stanca della normalità, quei dettagli minuscoli che Arthur Schopenhauer trovava irresistibilmente comici: “L’agitazione e il tormento della giornata, l’incessante ironia dell’attimo, il volere e il temere della settimana, gli accidenti sgradevoli d’ogni ora, per virtù del caso ognora intento a brutti tiri”. Svanisce, invece, la tragedia dei “desideri sempre inappagati, delle speranze calpestate senza pietà dal destino, dei funesti errori di tutta la vita”, svanisce la disperazione, forse dimenticata sugli sgabelli di una tavola calda o forse abbandonata per strada insieme al passato. È solo un sottofondo, mentre il vento spettina i capelli bianchi di Woody, il volto fiero di David.

L’America immobile li guarda.

Per gli amanti del bianco e nero, per i sognatori e per tutti quelli che perdono sempre, anche a tombola, la notte di Natale.

Articolo scritto per il n 48 di Quaderni d’Altri Tempi