Se le cose sembrano andare finalmente per il verso giusto, c’è qualcosa di cui non stai tenendo conto

Cronache, più o meno serie, del 1° giorno dalla Festa del Cinema di Roma

Confesso il mio disagio quando mi trovo in ambienti del genere, dove tutti, persino l’omino che svuota i cestini, si prendono sul serio, troppo sul serio. L’aria contrita di chi sta sacrificando tempo, fatica e denaro per vedere dei film che quasi nessuno andrà a vedere, per ascoltare attori, registi, produttori quasi sempre annoiati, che rispondono quasi sempre allo stesso modo. “Ho amato molto la storia”, “Sì, il mio personaggio è un cattivo, ma ha il cuore tenero”, “Questo è un prodotto coraggioso”.

Mi trovo a disagio, adesso, nella sala stampa, attorniata da giornalisti e blogger di carriera la cui spocchia fa sembrare Baricco un timido personaggio da Libro Cuore. Che poi, è pure giusto, i critici, criticano.

Mi muovo a fatica tra le pellicole in programmazione, ci finisco quasi per caso io nelle sale, la Sinopoli, la Petrassi, chiedendo scusa a tutti perché il film è già iniziato, ho un polmone collassato per quel poco fiato che mi rimane dopo i mille mila gradini, poi provo a godermi la storia, mentre a sinistra un tizio dorme e nella fila davanti un giornalista usa una penna luminosa per annotare tutto quello che vede. Che poi, mi chiedo, ogni anno (perché lui è uno di quei giornalisti storici che non si perdono una proiezione), come fa a scrivere e vedere il film contemporaneamente? Che mente scientifica deve avere per starsene lì al buio a scrivere, mentre potrebbe vedere e basta?

Il film in questione era una storia bellissima, Birth Of A Nation di Nate Parker, una storia di schiavitù e amore, di ribellione e sconfitta, che a più di un secolo di distanza dalla pellicola di Griffith, cambia la prospettiva, raccontandoci altro. Mi sono commossa, mi sono scordata di avere un pass stampa, uno zaino stracolmo, uno smartphone da cui far partire post e tweet e foto. Mi sono sentita a casa. Non mi dava fastidio neanche il mio compagno di poltrona che dopo 40 minuti ha iniziato a russare.

Però, ve lo devo dire, questa sensazione di beatitudine è durata appena 114′, poi è tornato il disagio, prepotente. Esco dalla sala, captando qua e là qualche battuta “Ma, non trovi che il pezzo di Gianmaria ieri su Oliver Stone sia stato imbarazzante? Belli i tempi in cui faceva l’inviato in Siria” o “Ma l’hai visto il film di Vicari? A me non è piaciuto? Poi Montanari, dai, ha fatto solo una cosa buona, Romanzo Criminale”, schivo l’inviata del Cinematografo perché un commento a caldo su un film così, che nella sua colonna sonora ha Strange Fruit di Billie Holiday, io non ce l’ho. Corro fuori a riprendere fiato e mi imbatto in Matt Dillon che è sempre lo stesso, occhiali scuri, giacca di pelle, resto a guardarlo mentre si fa dei selfie con gnugne varie, dell’ufficio stampa deduco da come lo circondano e si atteggiano. Cazzo, Matt Dillon, penso, qui a neanche due metri da me e niente. Io sempre immobile e a disagio.

Prendo un tramezzino al bar, lo so, non si fa, ma sono tre giorni che non sto a casa, la cervicale non mi fa ragionare e l’afa da pre – apocalisse mi toglie ossigeno. Una signora mi passa davanti. L’ultima volta che è successo ho scatenato una rissa. Ma non qui, qui fingo che non mi importi.

Me ne sto al sole a pensare ai film da vedere, un messaggio sullo smartphone mi avverte che ho finito soldi e minuti. Mi accorgo che sta per iniziare la conferenza stampa di Sole, cuore amore di Daniele Vicari. Mi piace Vicari. Non ho fatto in tempo a vederlo, ma salgo comunque ad ascoltare. Il disagio si moltiplica e anche la noia. Il giornalista con la penna luminosa ha preso una cuffia senza permesso, la tiene al collo si oppone agli inviti prima gentili e poi scocciati del personale di sala “Io ho tutto il diritto di tenere questa cuffia”, “Ce la deve ridare. Non può tenerla e poi non ci sono conferenze in lingua”, “Inaudito! Voglio tenere la cuffia”.  Ci potessero fare una serie su queste stronzate credo che sarebbe un successo. La conferenza inizia e mi convinco sempre di più che non dovrebbero farle, perché nessuno dei presenti sul palco o tra le poltrone è in grado di dire cose sensate o di spessore. “Vorrei fare un resumé” dice una pesudogiornalista. I resumé, non le domande, le vecchie e belle domande che si facevano una volta. No. Ora si fanno i riassunti. Mi limito a fare foto, vorrei urlare il mio disappunto e anche il mio mal di schiena, ma anche qui fingo che non mi importi.

Cast Sole cuore Amore
Cast Sole cuore Amore

Mi dirigo in sala stampa, bella vista da fuori. Ogni anno cambiano l’arredamento, come se bastasse… Entro e vedo una persona che conosco solo virtualmente, mi piace il suo lavoro, scrive di cinema ed è una di quelle poche che lo fa con ironia e impegno. Decido di presentarmi, anche se sta parlando con altre persone e la sala è piena.

Se fosse stata la scena di un film, sarebbe stato uno di quei teen movie con Molly Ringwald. Io ovviamente sarei stata Molly Ringwald. Inciampo sui cavi, mentre faccio per presentarmi, non cado però grazie al pilates e alla sedia di un giornalista che si sporge per reggermi. Sto bene in fondo, perché potevo spalmarmi sul pavimento, far cadere computer, reflex, occhiali da sole, telefono. Sì, dai, non è successo nulla. Avete presente quando dicono “se un albero cade nella foresta e nessuno lo sente, fa rumore?”. Ecco, io sono caduta in una sala piena di giornalisti.

Molly Ringwald in Sixteen Candles
Molly Ringwald in Sixteen Candles

Mi presento, anche se dopo un’entrata alla Jennifer Lawrence, l’unica cosa da fare sarebbe fingere uno svenimento. Lei sorride, gentile. Mi accorgo pure che è alta. Io ho le Converse e la figuraccia, lo sento, mi ha fatto accorciare di almeno 3 cm. Scambiamo appena due chiacchiere. Cerco di essere divertente. Mi allontano, sento ridacchiare alle spalle ed è subito liceo americano. Mi ricordo che stamattina, mentre scendevo le scale ho pensato “Ti immagini, cadere qui, davanti a tutti?” Avrei voluto la mamma. Ma ho finto che non mi importasse di essere inciampata.

Mi sono messa con il viso attaccato alla parete, che è una parete di mattoni rossi, bella. Qui si parla poco, per fortuna. Scrivo da un’ora per livellare sto disagio, aspettando la prossima proiezione e la prossima caduta, perché si sa che le cadute non vengono mai da sole.