Tutte le storie hanno un solo inizio, una sola fine e una sola trama. Tutte tranne questa.

È passato un anno dal mio viaggio in Giappone, che ho scoperto essere uno di quei posti che ti rimangono attaccati addosso anche se non vorresti, ecco è passato un anno e quello con le sue stramberie da otaku, le spade dei samurai e i treni superveloci, gli Anime e le cerimonie del tè, torna a schiaffeggiarmi. Non avrei mai pensato di poter provare nostalgia del Giappone. E invece.

Settimane fa l’Internet mi mostra Ningyo, che è una parola antichissima, eco di mostri metà donna e metà pesce (più simili a Lochness che alla Sirenetta di Andersen), ma che è anche un corto interattivo meraviglioso, straordinariamente scritto da Nicola Guaglianone e diretto, altrettanto straordinariamente, da Gabriele Mainetti.

Lo interpreto come un segno dalla terra del Sol Levante e dei Pokemon Go. Nicola poi l’avevo già intervistato per Lo chiamavano Jeeg Robot e avevo scoperto una passione comune: i baffi di Magnum P. I.Volevo ritentare l’impresa.

ninjyo

Scherzi e destino a parte, non capita spesso, perlomeno in Italia, di imbattersi in un prodotto audiovisivo come Ningyo, così raffinato, capace di intercettare e giocare con l’inclinazione alla partecipazione dal basso tipica del 2.0. Senza dimenticare che siamo di fronte ad un esempio eccellente di storytelling aziendale, il corto è stato, infatti, commissionato per il lancio della nuova Renault Scenic, uno di quei casi che poi diventano esempio nei manuali, corsi, workshop e riviste di settore.

Con questa intervista, inauguro anche una nuova sezione del blog. Poi dici i segni del fato …

C. Ningyo è una storia d’amore tra due creature (interpretati da Alessandro Borghi e Aurora Ruffini) distanti tra loro chilometri di terra e un triliardo di ettolitri d’acqua ed è un corto modulare, 3 elementi narrativi che, combinati, danno vita a sei storie possibili, ciascuna con un titolo differente. Appena l’ho visto ho pensato ai librogame, il lettore veniva posto davanti ad una scelta condizionando la trama e il finale della storia. C’è questo tra le fonti di ispirazione?

N. Direi di no. Non ho mai letto un librogame. Di solito non mi piacciono le storie interattive, mi sembrano un po’ una supercazzola. Come spettatore non amo dettare le regole, preferisco seguire quelle dell’autore. Mi piace essere preso per mano e portato nel suo mondo. Sono in pochi quelli che riescono a farlo. Quando accade, tutto funziona anche se non ci capisci niente. Come con David Lynch. In Ningyo è diverso. Invertendo i fattori e variando l’ordine, la storia cambia. Anche se le scene sono le stesse. Era questa la sfida.

C. Puoi raccontarmi come è avvenuto il processo creativo che vi ha condotto a questo intreccio?

N. Think Cattleya e Renault avevano indetto una gara. C’erano registi e sceneggiatori. Ci chiedevano di presentare una storia che avesse queste caratteristiche. Almeno tre moduli che cambiati di posto dessero una diversa chiave di lettura del racconto. Quando mi ha chiamato Gabriele ero in treno. Non sapevo da che parte cominciare. Prima di tutto mi serviva una storia. E poi andava adattata al sistema modulare. Come farla funzionare? Come renderla malinconica, evocativa, ma anche ironica, cinica, a tratti horror? Mi sono spaccato la testa per un paio di giorni e ho presentato tre storie. Ningyo ha convinto tutti. Far funzionare tutte le combinazioni è stato difficile. È come avere una coperta troppo corta. Se ti copri le spalle scopri i piedi e viceversa.

 

Ningyo, corto

 

C. Senza svelare la trama, che gli spoiler non mi piacciono, questa è una storia d’amore tra persone che appartengono a mondi inconciliabili. L’esclusione sembra essere un tema ricorrente, perché ti interessa tanto?

N. Non saprei. I mondi inconciliabili creano conflitto e il conflitto è la base di tutte le storie. Senza conflitto non c’è storia. Ho affrontato il tema della separazione, sarà così ancora per un altro paio di film che vedremo l’anno prossimo. Poi toccherà separarsi dal tema della separazione e andare avanti.

C. Guardandolo ci si dimentica del prodotto, il che fa di Ningyo un esempio eccellente di storytelling aziendale. Cosa cambia nel tuo lavoro quando si ha a che fare con un cliente, la Renault in questo caso specifico, che è anche produttore?

N. Non cambia nulla. Prima di tutto ci sono il senso estetico e la storia che voglio raccontare. La macchina si incastra bene nel racconto, non doveva essere qualcosa di ingombrante. Un po’ come l’acqua Pejo nei film di Tomas Milian, che c’era ma era molto meno invadente delle sigarette di Nino Manfredi.

C. Mainetti – Guaglianone – Braga: allora è vero che squadra che vince non si cambia?

N. Così come Michele D’Attanasio, Mary Montalto, Massimiliano Sturiale e tanti altri.

C. Dal successo di Lo chiamavano Jeeg Robot alla standing ovation per Indivisibili premiato a Venezia, passando per questo straordinario esperimento creativo, cosa ci dobbiamo aspettare da uno come te?

N. Aspettatevi che metta su qualche chilo. Non ho più tempo di andare in palestra a forza di starmene qui seduto a scrivere. Questa intervista compresa.